La quinta Sezione del Consiglio di Stato ha formulato un’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria (ord., 4 marzo 2019, n. 1457 – Pres. Severini, Est. Urso), ai sensi dell'art. 99, co. 1, c.p.a., in relazione ai seguenti quesiti: “1) se e in quali termini sia possibile in sede di c.d. ‘ottemperanza di chiarimenti’ modificare - anche alla luce dei principi di diritto affermati da Cons. Stato, Ad. plen., 25 giugno 2014, n. 15 - la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in una precedente sentenza d’ottemperanza; 2) se e in che misura la modifica di detta statuizione possa incidere sui crediti a titolo di penalità già maturati dalla parte beneficiata”.

 

Il ricorso il cui esame viene deferito all’Adunanza Plenaria ha ad oggetto una peculiare richiesta di chiarimenti avanzata dal commissario ad acta in relazione alla modalità d’esecuzione dell’obbligo di pagamento della penalità di mora stabilita a carico della pubblica amministrazione in una sentenza di ottemperanza, la cui esecuzione “condurrebbe oggi a un risultato pratico la cui anomalia per eccesso chiunque non può mancare di rilevare”.

Proprio muovendo da tale risultato, il Consiglio di Stato si pone degli interrogativi di carattere generale relativamente alla natura della penalità di mora e del provvedimento giudiziale che ne dispone l’applicazione, registrandosi su tali questioni notevoli contrasti, anche solo potenziali, di carattere giurisprudenziali.

A conclusione di una dettagliata rassegna, la Sezione V ha chiarito che la penalità di mora ex art. 114, co. 4, lett. E, c.p.a., rispondente al modello di matrice francese delle astreintes, costituisce secondo consolidata giurisprudenza un “mezzo di coercizione indiretta nel tempo in cui l’amministrazione debitrice permane nella mera condizione di inadempiente con propri mezzi: dunque, dalla pronuncia dell’ordine di ottemperanza alla nomina del commissario ad acta. Ma, una volta intervenuta la surrogatoria nomina del commissario ad acta, diviene irragionevole ritornare alla più contenuta astreinte”.

Specifica poi il Consiglio di Stato che tale assunto “presuppone la maggior efficacia e miglior attitudine satisfattiva del diretto strumento surrogatorio - perché in grado di attribuire direttamente il bene della vita - rispetto all’indiretto strumento sanzionatorio. Implicito postulato di tale predicato è tuttavia che la penalità di mora perduri in misura non iniqua. Diversamente si giungerebbe al paradosso che potrebbe divenire ben più locupletante la maturazione dell’astreinte rispetto al conseguimento dello stesso bene della vita, e cioè la soddisfazione dell’oggetto del petitum sostanziale della originaria domanda giudiziale. E non pare dubbio che, in una siffatta ipotesi, ci si troverebbe di fronte ad un sostanziale arricchimento senza causa generato da un atto del giudice. È evidente l’effetto distorsivo di un tale meccanismo; per cui è necessario rinvenire all’interno dell’ordinamento processuale la soluzione a situazioni di manifesta iniquità o sussistenza d’altre ragioni ostative all’applicazione dell’astreinte che venissero in rilievo dopo la statuizione sanzionatoria. Non può trovare protezione da parte dell’ordinamento un rimedio compulsorio che nella realtà pratica ed economica viene a porsi come più prezioso dello stesso bene della vita reclamato in giustizia, divenendo un’occasione straordinaria e senza ragione d’ingiustificato arricchimento per l’interessato”. Leggi sentenza

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